Shoot'em up, questi sconosciuti

Shoot'em up, questi sconosciuti

Premi start

di Simon Larocca

12/02/2024

Se dovessi nominare un genere per descrivere in una sola parola cosa significa giocare a un arcade, non avrei alcun dubbio. Il termine "Sparatutto" la dice lunga sulle atmosfere di caos frenetico da affrontare per sopravvivere pur di portare a termine la missione.

Gli "shoot'em up", così come vengono chiamati universalmente, sono tutti quei videogiochi che prevedono una forte componente di reattività manuale, la coordinazione mano-occhio, alla base di ogni arcade che si rispetti, qui diventa un elemento preponderante.

Coniare il termine Sparatutto per indicare questo genere è stata una scelta felice e azzeccata: lo schermo degli shoot'em up, infatti, prevede la presenza su schermo di una miriade di raggi laser, proiettili al plasma, missili a rilevamento termico, bombe, granate e qualsiasi cosa stimoli la mente florida dei programmatori!

Di solito, uno shoot'em up ci permette di utilizzare come avatar una navicella spaziale, oppure un eroe (umano, androide o creature impossibili da definire con i nostri canoni) che si muove su un piano generalmente a scorrimento laterale, verticale o isometrico, combattendo contro orde su orde di nemici che hanno come unico obiettivo e mantra quello di distruggerci, in ogni modo possibile.

Prendiamo ad esempio Galaga, prodotto dalla Namco, classicone del 1981 dove lo spazio diventa terra di conquista per alieni dalla forma insettoide, pronti a sacrificarsi in azioni kamikaze decise da un pattern volutamente suicida, pur di sconfiggerci. Shoot'em up quindi equivale a Sparatutto? Non proprio.

Lo shoot'em up potremmo definirlo come sottogenere principe in una complessa rete di varianti accomunate dalla distruzione di massa di ogni avversario presente sullo schermo. Esistono varie tipologie di sparatutto, ma personalmente preferisco suddividerli in due macrocategorie, soprattutto se parliamo di arcade e non videogiochi moderni (dove ci sarebbe da fare un'ulteriore analisi che al momento non ci compete): gli sparatutto in soggettiva e quelli che non lo sono.

Potrebbe sembrare una distinzione superficiale, ma per me non lo è affatto: videogiochi come Doom e Wolfenstein, per esempio, possiedono caratteristiche tecniche e di gameplay molto diverse da R-Type o il frustrante, ma eccezionale, Gyruss di casa Konami.

La visuale in soggettiva dei primi modifica radicalmente l'approccio ai livelli e al concept stesso del videogioco. Lo shoot'em up per come lo intendiamo noi, invece, sacrifica l'immersività proposta dalla soggettiva per premere sull'acceleratore dell'adrenalina e della caoticità tipica della pioggia di proiettili che dovremo evitare per non incappare nel fatidico game over.

Gli shoot'em up sono molto amati dagli Hardcore Gamer vecchia scuola, quelli che pur di segnare un punto in più nello score finale compiono manovre impossibili a rischio frattura del polso, per intenderci: un'altra caratteristica importante che li distingue da tutti gli altri generi è dunque la possibilità di ottenere un punteggio alla fine della sessione di gioco, elemento, questo, che con il passare del tempo è venuto a mancare nella gran parte delle produzioni videoludiche, fino a oggi, dove è sparito quasi del tutto.

Personalmente, ritengo che sia un peccato, perché se c'è una componente essenziale nel videogioco così come è stato concepito, è la possibilità di mettersi alla prova e migliorare ogni partita di più, sfruttando la curva d'apprendimento che i programmatori hanno predisposto per il videogiocatore: come sempre, ciò che conta davvero è sfidare l'avversario più ostico di tutti: se stessi.

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Simon Larocca

Scrittore e socio di Retroedicola Video Club

Mi chiamo Simon Larocca, e sono un videogiocatore, collezionista e amante della cultura pop in tutte le sue forme. Vado al cinema ogni volta che posso, leggo da quando porto gli occhiali, quindi da sempre, e ho la passione per lo storytelling in tutte le sue forme, così dirompente da farla diventare una professione. Ma come direbbe Doc di Ritorno al Futuro, non ci sarebbe presente se non si guardasse al passato con rispetto e ammirazione, ed è il Simon bambino di più di trent’anni fa, anno più anno meno.

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