L'intrattenimento che fa riflettere, la politica nei videogiochi

L'intrattenimento che fa riflettere, la politica nei videogiochi

Nuovi record!

di Simon Larocca

17/09/2024

Sei un androide.

Il tuo mondo interiore è stato creato ad hoc da una multinazionale e il tuo unico obiettivo è servire l’essere umano in quanto tuo creatore. Ma cosa succede quando sviluppi dentro di te qualcosa che non comprendi e che ti fa sentire vivo come non mai?

Nella società futuristica immaginata nel videogioco Detroit Become Human uscito nel 2018, non c’è spazio per l’autodeterminazione, e il mondo si divide in padroni-umani e schiavi-robot.

Il processo che condurrà il nostro avatar a prendere in mano le redini di una ribellione e per svegliare la coscienza di altri esseri come lui è di per sé politica, se per politica intendiamo l’arte di vivere assieme come diceva l’ateniese Pericle, definizione forse troppo ottimista per i nostri tempi nebulosi ma che ben descrive il peso delle scelte e delle implicazioni culturali e morali del singolo individuo.

Concetto interessante, ma non esauriente a mio parere: politica e videogiochi hanno uno legame stretto, a dispetto di quello che molti addetti ai lavori hanno sempre sostenuto con leggerezza, e le radici di tale connessione affondano in un passato molto più remoto se rapportato all’uscita del sopracitato Detroit Become Human: basti pensare al mondo non così distopico post-Guerra Fredda tratteggiato da Hideo Kojima con la fortunata serie di Metal Gear Solid, la cui prima versione risale al 1987.

Solid Snake, l’eroe del gioco, si muove in un territorio ambiguo dove nazioni ed esseri umani giocano una partita a scacchi con la vita della gente comune, parlando di argomenti scottanti e pericolosi come la corsa al nucleare, la tecnologia bellica in espansione e gli interessi economico-politici di oligarchi senza scrupoli a scapito del popolo: Kojima, anche nel recente Death Stranding, racconta la democrazia, e la sua degenerazione, in chiave distopica, utilizzando il media videogioco come strumento di denuncia, sottile e travestita da avventura open world, certo, ma pur sempre di denuncia si tratta.

Va da sé che sviluppatori e case di produzione (che investono sui giochi e ci mettono la pecunia) non ambiscono a schierarsi politicamente in quello che rimane comunque un contesto di intrattenimento generalista: le trame degli sparatutto in prima persona o delle avventure immersive, solitamente i generi che vanno per la maggiore per quanto concerne tematiche adulte di questo tipo, si orientano verso una contrapposizione Bene-Male semplicistica, mostrando i cattivi, facenti parte di stati totalitari e dittatoriali, contrapposti a eroi ed eroine che lottano per organizzazioni ribelli. Quindi in parole povere i personaggi negativi sono villain dall’intelligenza spiccata come il leader calcolatore Paul Seréne di Quantum Break (dei Remedy, i ragazzi di Max Payne) oppure l’esatto opposto: mi viene in mente l’orribile gerarca nazista mutato del sempreverde Wolfenstein, per esempio.

Ma davvero il tessuto sociale in cui viviamo è esente da approfondimenti impegnati sul tema da parte del settore videoludico?

Se fosse una competizione olimpionica di velocità, il videogioco partirebbe in netto svantaggio se paragonato ad altri media come la narrativa o il cinema, avanti anni luce nel rappresentare scenari in cui l’occhio attento svela intrighi, corruzione e manovre sottobanco scomode alla base di oppressione e crisi geopolitiche, spesso al punto da far saltare poltrone se non pagare prezzi ancora più alti.

Nel 2013 giocai a un titolo indie la cui condotta strettamente legata al gameplay suscitò molte riflessioni in me: si chiama Paper, please: nei panni di un ispettore addetto al controllo immigrazione, dovremo controllare i documenti dei vari personaggi che si presenteranno per entrare in uno stato immaginario di stampo comunista, e starà a noi giocatori, in base a indizi, dettagli e il nostro personale (pre)giudizio, decidere come muoverci, arrestando un potenziale terrorista o lasciare libera di passare la signora su d’età dall’aria mite che, purtroppo per noi e la nostra mancata professionalità, nasconde un’arma biologica nel bagaglio a mano. Senza contare le tangenti che intascheremo se avremo chiuso un occhio davanti a una personalità benvoluta dai politici del nostro Paese.

La politica esistente nel paese di ambientazione gioca un ruolo fondamentale sulla condotta da tenere in gioco, una perfetta metafora del comportamento dei nostri rappresentanti, piena di tante ombre e qualche sporadica luce.

Davanti a risvolti del genere, fa sorridere con un misto di nostalgia e tenerezza ripensare al sindaco di MetroCity Haggar, corpulento protagonista dell’arcade Final Fight che risolve a suon di mazzate le controversie in comune, botte senza esclusione di colpi se gli rapite pure l’adorata figlia, tra l’altro; o come non citare Operation Wolf, con un reazionario protagonista principale e icona militarista della propaganda americana: la narrazione, quando veicolata in un certo modo, fa politica, ma la politica non è amica delle vendite nel mercato videoludico, che rimane una forma d’intrattenimento tutto sommato (ancora) pura, e forse è meglio così.

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Simon Larocca

Scrittore e socio di Retroedicola Video Club

Mi chiamo Simon Larocca, e sono un videogiocatore, collezionista e amante della cultura pop in tutte le sue forme. Vado al cinema ogni volta che posso, leggo da quando porto gli occhiali, quindi da sempre, e ho la passione per lo storytelling in tutte le sue forme, così dirompente da farla diventare una professione. Ma come direbbe Doc di Ritorno al Futuro, non ci sarebbe presente se non si guardasse al passato con rispetto e ammirazione, ed è il Simon bambino di più di trent’anni fa, anno più anno meno.

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